Leggendo la Provincia di Como dell’altro giorno mi sono imbattuto in un articolo sul Carnevale. Il primo della stagione. Ed improvvisamente mi sono accorto che siamo ormai gia` prossimi all’evento che caratterizza questo mese di febbraio, ovvero il Carnevale. A ben vedere, se non ci fosse questa ricorrenza, potremmo ben a ragione dire “ma a che serve febbraio?”. In effetti si tratta di uno dei mesi piu` brutti dell’anno, forse il piu` brutto in assoluto, caratterizzato da giornate corte, uggiose, fredde, grigie all’inverosimile. Il tutto aggravato ulteriormente da questa pandemia che ci costringe ad avere una vita da semireclusi. Insomma, un vero disastro. Per anni e anni mi sono chiesto perche` mai i miei abbiano deciso di farmi nascere in questo triste mese. E per lunghi anni non sono riuscito a darmi una risposta. Poi un bel giorno ho scoperto che il 2 febbraio, giorno della mia nascita, venne alla luce lo scrittore James Joyce. E la cosa mi riempi` di entusiasmo, dato che questo autore e` uno dei miei preferiti. Ad aggiungere entusiasmo ad entusiasmo arrivo` un’altra rivelazione, ovvero la scoperta che il 2 febbraio e` nata anche Shakira. Hurra`…! Lo so, puo` sembrare poca cosa, ma per uno che e` nato a febbraio, e dico febbraio, e` molto. Credetemi.
Ebbene, sulla Provincia si parlava dell’evento “Carnevale in Villa Carlotta”.
“Il 13-14-15 febbraio, in collaborazione con il Teatro dei Burattini di Como, abbiamo organizzato l’evento online dal titolo “Carnevale in Villa Carlotta”, che comprende due farse tratte dal repertorio della Commedia dell’Arte e un avvincente tutorial che presenta il laboratorio manuale e creativo, volto a realizzare una speciale maschera di carnevale. I protagonisti sono le classiche maschere della commedia dell’Arte: Arlecchino, Pantalone, Colombina, Dorabella, che si esibiranno in due farse comicissime tratte dal repertorio delle commedie seicentesche”
Per chi avra` tempo e voglia, sara` sicuramente un evento da non perdere.
Anche a Sesto San Giovanni – alle porte di Milano – , luogo in cui sono nato e cresciuto, c’era l’usanza di vestire, soprattutto i bambini. Le mie prime esperienze in fatto di travestimenti risalgono all’età delle scuole elementari. Quando avevo sei o sette anni, durante i rigidi inverni padani, andavo sempre incontro a delle brutte tonsilliti con febbri alte e spesso ero costretto a passare lunghi periodi di convalescenza a casa. Un anno saltai completamente la festa e quando ormai ero sulla via della guarigione, si era già in pieno periodo quaresimale. Mia madre, per non farmi sentire da meno degli altri bimbi – per giorni avevo invidiato con feroce rancore gli amichetti che sfilavano gioiosi sotto le finestre di casa – decise di abbigliarmi ugualmente con un tragico vestitino da Zorro. A lungo attraversammo le piazze e le stradine assolate del centro, confondendoci tra gli sguardi stupiti della gente. Ad un tratto, mentre ero tutto intento a sciabolare violentemente un cespuglio con la mia bella spaduccia di plastica, ci venne incontro una donna anziana con un foulard nero sulla testa, bigotta all’inverosimile e colma di un livore malamente celato: «Ma signora… siamo in Quaresima… non si può più festeggiare il Carnevale: è sacrilegio. Vada subito a cambiare il bambino finché è in tempo…!». Sentite quelle parole presi a sciabolare anche lei.
L’anno successivo, questa volta assistito dalla buona sorte, riuscii a festeggiare nei tempi e nelle modalità corrette. A scuola si tenne lezione in maschera e per l’occasione sfoggiai un nuovissimo completino da Robin Hood, con tanto di arco, faretra e penna sul berretto a punta. L’unica cosa che non gradivo di quel travestimento era la tremenda calzamaglia rosa carne che mi faceva vergognare come un ladro scoperto da un vigilante all’uscita di un centro commerciale affollato. Avevo sempre l’impressione che tutti mi fissassero la zona inguinale, e per questo me ne andavo per la scuola con entrambe le mani poste a protezione: ero a metà tra un maniaco sessuale e un calciatore in barriera in attesa della punizione di Balotelli.
Gli anni a seguire, quelli delle medie, furono caratterizzati da tutt’altro spirito. Abbandonati gli innocenti e delicati divertimenti da bambini, ci si dedicò alle sfide tra bande a colpi di schiuma da barba, farina e uova marce. Il sabato pomeriggio – a Sesto c’era il rito ambrosiano – ci si trovava nei pressi dell’oratorio e si scatenavano battaglie invereconde, con tanto di inseguimenti, agguati e raid punitivi ai danni degli avversari. I più perfidi usavano anche le temutissime schiume depilanti che, da bugiardino, promettevano la caduta istantanea di tutti i capelli. Era una guerra spietata che non ammetteva prigionieri.
Quando giunsero gli anni del liceo il Carnevale andò in disuso. Era una delle festività più snobbate dell’anno. Una volta però un’amica invitò tutta la compagnia ad una festa in maschera: a sentir lei ci sarebbe stato da divertirsi all’inverosimile. Per lunghi giorni ci consultammo sul da farsi, poi all’improvviso giunse una notizia clamorosa: alla festa avrebbe partecipato anche Carolina, la ragazza più bella di tutto il comprensorio Parco Nord. Ne eravamo tutti innamorati, chi più chi meno segretamente, ed avremmo dato volentieri la palla destra per uscire con lei. Ricordo che il solo guardarla da lontano ci provocava deliqui malsani e violentissime tachicardie. Carolina non salutava quasi mai nessuno, non tanto perché fosse algida ed altezzosa, quanto perché nessuno di noi osava nemmeno avvicinarsi a lei. Per ironia della sorte quella sua stratosferica bellezza la relegava in una singolare solitudine, spezzata solo dalla vicinanza di alcune amiche, per lo più bruttine e antipatiche. Una mattina, mentre ero in corridoio nei pressi del bar dell’istituto, Carolina si avvicinò a me in spaventevole rotta di collisione. Ebbi un immediato tremore alle gambe ed un principio di arresto cardiaco. Mi si fermò davanti e, con un sorriso che aveva del miracoloso, mi domandò con voce d’angelo: «Hai da accendere, per favore». Io ero un fumatore da competizione fin dalla più tenera età e a quell’inattesa domanda risposi prontamente: «Certamente, per te questo ed altro» e cominciai a frugarmi nervosamente nelle tasche alla ricerca del mio sontuoso zippo a quattro tacche: quello con la fiamma più alta. Ispezionai ogni pertugio ripetutamente, compreso il cavo inguinale senza badare al pudore. Divenni rosso porpora cardinalizio e cominciai a sudare abbondantemente. Niente di niente: la triste realtà era che avevo tragicamente lasciato le sigarette nel giubbotto appeso in classe. Carolina attese ancora un attimo, poi accennò appena una smorfia di delusione e se ne andò dicendo: «Ok, non importa…!». Mi stramaledissi per quasi una settimana infliggendomi spontaneamente penitenze e tormenti corporali, non troppo atroci.
E così, dopo lunghe discussioni, decidemmo tutti di partecipare a quella festa. Immediatamente si propose la drammatica scelta del travestimento. Molti optarono per il classico dei classici, vale a dire il travestimento da donna: si ricorse ad osceni parrucconi biondo platino, gonne svolazzanti e volgarissimi strati di belletto e maquillage. Alcuni pensarono bene di munirsi anche di aggraziate borsette plissettate, rubate a vecchie zie, e di rotearle di tanto in tanto con l’eleganza tipica di una entreneuse del Giambellino. Quando poi da lontano vedemmo avvicinarsi Celestino – che aveva fama di essere un portentoso menagramo – , vestito da Conte Dracula, ci toccammo prudentemente e con nonchalance entrambi i testicoli. Io a lungo fui indeciso. Infine, quasi per disperazione, diedi retta a mia madre e mi convinsi ad indossare la divisa completa da ferroviere di mio padre, compreso berretto, borsello e fischietto. Per dare un minimo di ilarità alla cosa mi disegnai un paio di osceni baffi posticci con la matita degli occhi. Quando gli amici mi videro arrivare non cercarono nemmeno lontanamente di ridere. Alla festa fui osservato per tutto il tempo con molta diffidenza: praticamente ero a tutti gli effetti un ferroviere in servizio ad una festa in maschera. Per cercare di addrizzare quella maledetta faccenda, cominciai ad andare in giro per il salone con una macchinetta leva-punti ripetendo ad alta voce: «Biglietti… biglietti prego… biglietti…». Per poco non fui buttato fuori a calci. Quel branco di iene non aveva mai pagato nemmeno il biglietto della pesca di beneficienza della parrocchia.